1138: IL FABBRICANTE DI GRONDE

                    (The Maker of Gargoyles, agosto 1932)

 

Tra le molte gronde scolpite che lanciavano occhiate corrucciate e maliziose dalla cattedrale di Vyones, di nuova costruzione, due spiccavano sulle altre per la raffinata fattura e la suprema bizzarria. Entrambe erano state elaborate da Blaise Reynard, un intagliatore di pietra nativo di Vyones, che da poco era ritornato dopo un lungo soggiorno nelle città della Provenza ed era riuscito ad ottenere di lavorare alla Cattedrale, quando già l'opera di costruzione e decorazione, che aveva richiesto tre anni, era per lo più completata.

Vedendo la meravigliosa maestria dimostrata da Reynard, l'Arcivescovo Ambrosius rimpianse di non aver potuto affidare a questo artigiano abile e raffinato l'esecuzione di tutte le gronde. Ma altra gente, con gusti meno liberali di quelli di Ambrosio, fu udita esprimere una diversa opinione.

Probabilmente questa opinione si tingeva dell'avversione personale che generalmente Reynard ispirava alla gente di Vyones fin da quand'era ragazzo, e che al suo ritorno era riesplosa più o meno violenta. A torto o a ragione, la sua stessa fisionomia lo destinava da sempre al pubblico sfavore: aveva una carnagione eccessivamente scura, con capelli e barba di un nerobluastro innaturale, e occhi a mandorla, disuguali, che gli davano un'aria astuta e sinistra. I suoi modi taciturni e cupi erano quelli che la gente superstiziosa è solita attribuire ad esperti Negromanti o ai loro complici, e c'erano di quelli che di nascosto lo accusavano di aver fatto lega con Satana. Comunque le accuse, anche verso la fine, erano poco più che vaghe: voci anonime, senza un'autentica prova.

Ad ogni modo, la gente che sospettava Reynard di patti col diavolo, per un po’ prese ad addurre come prova sufficiente le due gronde. Nessun uomo che non fosse inspirato dal Grande Nemico, sostenevano, avrebbe potuto scolpire una cosa così assolutamente malvagia e maligna, avrebbe potuto incarnare nella semplice pietra, con così consumata maestria, i lineamenti viventi del più demoniaco di tutti i Peccati Mortali.

Le due gronde erano appollaiate agli opposti di un'alta torre della cattedrale. Una  rappresentava  un  mostro  crudele e ringhiante, dalla testa felina, con le labbra ritratte su formidabili zanne, ed occhi che sfolgoravano intollerabilmente torvi sotto le sopracciglia feline. Questa creatura aveva artigli ed ali da grifone, e sembrava star lì sospeso, pronto ad avventarsi sulla città di Vyones come un'arpia sulla sua preda.

Il suo compagno era un satiro con le corna, dalle grandi ali di pipistrello che sembravano servirgli ad errare per le caverne degli Inferi, con artigli affilati ed arcuati, ed uno sguardo che covava una lussuria satanica, come se stesse divorando con gli occhi l'inerme oggetto del suo immondo desiderio.

Entrambe le figure erano complete, anche nella parte posteriore, e non sembravano semplicemente delle convenzionali aggiunte al tetto.

                                                                   10

Ci si sarebbe aspettati che da un momento all'altro uscissero dalla pietra in cui erano incastrate.

Ambrosius, amante dell'arte, era chiaramente rimasto deliziato da queste creazioni, sia per l'alta perizia tecnica che per la verosimiglianza del lavoro di scultura. Ma altri, compresi molti dignitari della Chiesa più modesti, erano piuttosto scandalizzati, e dissero che l'artigiano aveva realizzato con queste figure il ritratto visibile dei propri vizi, per la gloria di Satana più che per quella di Dio. Insomma, aveva dato prova di empietà. Naturalmente essi ammettevano che le gronde richiedessero una certa bizzarria nella rappresentazione; ma in questo caso i confini del lecito erano stati ampiamente superati.

Comunque, con il completamento della Cattedrale e a dispetto di tutte le critiche contrarie, le gronde di Blaise Reynard - come tutti gli altri dettagli dell'edificio - furono presto date per scontate grazie alla semplice familiarità quotidiana, ed infine furono quasi dimenticate.

Lo scandalo si placò, e lo stesso intagliatore, sebbene la popolazione cittadina continuasse a guardarlo di traverso, poté ottenere altro lavoro grazie al favore di raffinati protettori. Rimase a Vyones, e fece la corte, sebbene con scarso successo, alla figlia di un taverniere, una certa Nicoletta Villom, di cui si diceva che fosse innamorato da lungo tempo, nel modo scontroso e riservato che gli era proprio.

Ma era lo stesso Reynard che non dimenticava le gronde. Spesso, passando davanti al superbo edificio della Cattedrale, soleva alzare lo sguardo verso di loro, con una segreta soddisfazione di cui difficilmente avrebbe potuto trovare la causa.

Sembrava che rivestissero per lui un significato mistico e raro, che indicassero un trionfo oscuro ma piacevole.

Se gli avessero chiesto il motivo della sua soddisfazione, avrebbe detto di essere orgoglioso della propria abilità. Non avrebbe detto, e forse non avrebbe nemmeno saputo, che in una delle gronde aveva racchiuso tutto il suo aspro rancore, tutto il fiele e l'astio che nutriva per la gente di Vyones, che l'aveva sempre odiato, e che aveva posto l'immagine di questo rancore a guardare la città malevolmente e per sempre da un'altezza superba.

E forse non avrebbe neanche immaginato di aver espresso, nella seconda gronda, la sua ostinata passione di satiro per la giovane Nicoletta. Una passione che lo aveva riportato alla detestata città della sua giovinezza dopo anni di vagabondaggio. Una passione straordinariamente tenace, diversa dall'ordinaria libidine di una natura brutale come quella di Reynard.

Per l'intagliatore, anche più che per quelli che avevano criticato e detestato le sue opere, le gronde erano sempre vive: esse possedevano una vitalità e una sensibilità proprie. E sembravano vive soprattutto quando arrivava la fine dell'estate e le piogge autunnali si raccoglievano sopra Vyones.

Allora, quando le grondaie piene della Cattedrale versavano l'acqua piovana sulle strade, si sarebbe potuto pensare che il fetido sputo della malevolenza e la stessa bava di una sudicia concupiscienza si fossero in qualche modo mescolati con l'acqua che sgorgava a ruscelli dalle bocche delle gronde.

A quel tempo, nell'anno del Signore 1138, Vyones era la città più importante della provincia di Averoigne. Da un lato e dall'altro la grande foresta infestata d'ombre, su cui circolavano equivoche leggende di fantasmi e lupi mannari, giungeva fin sotto le mura della città, allungando su di lei le sue ombre a sera e a prima mattina. Sugli altri lati si stendevano campi coltivati, graziosi ruscelli che serpeggiavano tra salici e pioppi, e strade che correvano nella pianura fino agli alti castelli di nobili signori e alle regioni che confinavano con Averoigne.

La città era prospera, e non aveva mai condiviso la cattiva fama della foresta che la delimitava. Da lungo tempo era santificata dalla presenza di due conventi e di un monastero, ed ora che la Cattedrale progettata da tanto tempo era stata completata, si pensava che Vyones avrebbe goduto, per il futuro, dell'ulteriore protezione di una più augusta santità, e che demoni, streghe e incubi, si sarebbero tenuti alla larga da quel luogo favorito dal cielo, dimostrando ancor più prudenza di prima.

Naturalmente, come in tutte le città medievali, si erano verificati occasionalmente episodi di stregoneria e di possessione demoniaca e, una volta o due, le pericolose tentazioni di incubi avevano intaccato la pia virtù di Vyones. Ma questo era prevedibile, in un mondo in cui il Diavolo e le sue opere erano sempre più o meno in auge. Nessuno invece avrebbe potuto immaginare il regno di orrori infernali che doveva rendere spaventosi gli ultimi mesi autunnali che seguirono l'erezione della Cattedrale.

Per rendere la faccenda più evidente, e più terribilmente blasfema di quanto sarebbe stata altrimenti, il primo di questi orrori si verificò proprio nei dintorni della Cattedrale e quasi sotto la sua ombra protettrice.

Due uomini, un rispettabile venditore di stoffe di nome Guillaume Maspier ed un ugualmente rispettabile vinaio, un certo Jerome Mazzal, stavano facendo ritorno ai loro alloggi nelle ultime ore di una sera di novembre, dopo aver bevuto i vini bianchi e rossi di più di una taverna.

Secondo Maspier - il solo che sopravvisse per raccontare la storia - stavano passando lungo una strada che costeggiava la piazza della Cattedrale, e potevano vedere la cupola del grande edificio stagliarsi contro le stelle, quando un mostro volante, nero come la fuliggine di Abaddon, era sceso su di loro dal cielo ed aveva assalito Jerome Mazzal, colpendolo con le sue pesanti ali ed afferrandolo con i lunghi denti e gli artigli.

Maspier non poté descrivere la creatura nei particolari, perché non l'aveva vista che confusamente, nella penombra della strada non illuminata. Inoltre, il destino del suo compagno, che era finito sull'acciottolato con il diavolo nero che ringhiava e gli squarciava la gola, l'aveva indotto a non soffermarsi.

Si era allontanato dalla scena con tutta la velocità di cui era capace, e si era fermato solo presso la casa di un prete, molte strade più in là dove, rabbrividendo e singhiozzando, aveva raccontato la sua avventura.

                                                                   12

Armato di Acqua Santa e aspersorio, e accompagnato da molti cittadini che portavano torce, bastoni e alabarde, il prete fu condotto da Maspier sul luogo dell'orribile avvenimento.

Lì fu rinvenuto il corpo di Mazzal, che aveva il viso spaventosamente straziato e il petto e la gola solcati da ferite sanguinanti. Il demoniaco assalitore era volato via, e per quella notte non fu più visto, né incontrato. Ma quelli che avevano visto la sua opera ritornarono a casa atterriti, credendo che una creatura del più profondo inferno fosse venuta a visitare la città, e forse a rimanerci.

Il giorno dopo, quando la storia diventò di dominio pubblico, si diffuse la costernazione, e il clero compì riti di esorcismo contro l'invasione del demonio in tutti i luoghi pubblici e sulle soglie delle case. Ma spruzzare Acqua Santa e borbottare le formule stabilite fu vano: perché lo spirito del male era ancora in giro e diede prova della sua malvagità ancora una volta, la notte che seguì la spaventosa morte di Jerome Mazzal.

Questa volta reclamò due vittime, cittadini molto probi e piuttosto importanti, su cui scese in uno stretto vicolo, uccidendone uno immediatamente e trascinandone un altro per le spalle, mentre cercava di fuggire.

Le grida laceranti dei due innocenti e il ringhio gutturale del demonio furono uditi dalla gente che abitava le case lungo il vicolo, e quelli che furono abbastanza coraggiosi da guardare dalla finestra, videro allontanarsi l'infame assalitore, cancellando le stelle d'autunno coi nero e deforme sudiciume delle sue ali, mentre si librava in volo sulle case, orribile e minaccioso.

Dopo di ciò, poca gente si avventurava fuori di notte, a meno che non ce ne fosse terribile ed urgente bisogno. Quelli che lo facevano, giravano armati e in compagnia, tutti muniti di fiaccole, pensando così di spaventare e scacciare il demonio: lo ritenevano infatti una creatura delle tenebre, che per natura aborriva la luce e si ritirava davanti a lei.

Ma questo era un demonio di insolita audacia, perché procedette all'attacco di più di una compagnia di valenti cittadini, senza curarsi delle torce ardenti che gli venivano scagliate in faccia, oppure spegnendole col vento puzzolente delle sue grandi ali.

Evidentemente era uno spirito animato da un odio micidiale, perché tutte le persone che afferrava venivano atrocemente straziate o ridotte a brandelli dai suoi denti e dai suoi artigli. Quelli che l'avevano visto ed erano sopravvissuti, lo descrivevano in vari modo e con molta ambiguità, ma tutti concordavano nell'attribuirgli la testa di un animale feroce e le ali di un mostruoso uccello.

Alcuni, i più dotti in demologia, erano inclini ad identificarlo con Modo, lo spirito dell'assassinio; altri lo prendevano per uno dei grandi luogotenenti di Satana, forse Amaimon e Alastor, reso pazzo dall'esasperazione per l'incrollabile supremazia di Cristo nella Città Santa di Vyones.

Presto, con l'allargarsi del campo d'azione di questo satanico predone e assassino, prese il sopravvento un terrore incredibile, un buio grumo di superstizione, un'agitata e tormentata ossessione del male, che è impossibile suggerire con un linguaggio moderno.

Persino alla luce del sole, le gotiche ali dell'incubo sembravano incombere oppressive sulla città, e la paura era dovunque, come il fetido contagio di un'epidemia di peste. Gli abitanti seguivano la loro strada tremando e pregando, e lo stesso Arcivescovo, come il clero minore, confessava la propria incapacità di tener testa al crescente terrore. Si mandò un emissario a Roma, perché procurasse dell'acqua, benedetta in modo speciale dal Papa. Soltanto questo, pensavano, sarebbe stato sufficientemente efficace da scacciare il terribile visitatore.

Nel frattempo l'orrore crebbe e giunse al culmine. Una sera, verso la metà di novembre, l'Abate del monastero locale di Cordeliers, che era andato ad amministrare l'Estrema Unzione ad un amico morente, fu afferrato del diavolo nero proprio mentre si apprestava a varcare la soglia della casa, e trucidato nello stesso modo atroce delle altre vittime.

A questo crimine doppiamente infamante, si aggiunse presto un sacrilegio difficilmente credibile. Nella stessa notte, quando il corpo straziato dell'Abate giaceva su un ricco catafalco nella Cattedrale, mentre i ceri ardevano e si diceva Messa, il demonio penetrò nell'alta navata, irrompendo dalla porta aperta, spense tutte le candele con un solo sbattere delle sue ali nere, e trascinò non meno di tre dei preti che officiavano, ad una morte empia nell'oscurità.

Ora tutti sentivano che le Forze del Male stavano sferrando un attacco veramente formidabile contro la cristiana probità di Vyones. Nella situazione di abietto terrore,  di disordine  e   demoralizzazione  estremi che fecero seguito a questa nuova atrocità, si verificò un deprecabile rigurgito del crimine umano, di delitti, furti e rapine, oltre a segrete manifestazioni di satanismo e celebrazioni di Messe Nere, cui partecipavano molti neofiti.

Allora, in mezzo a tutta quella paura e quella confusione da pandemonio, si disse che a Vyones era comparso un secondo diavolo. Che al demonio assassino ora si accompagnava uno spirito ugualmente tenebroso e deforme, che aveva intenzione lascive e non molestava altri che donne. Questo essere aveva terrorizzato parecchie signore, signorine e serve che, in preda ad una vera e propria isteria, si erano viste spiare dalle finestre delle loro camere da letto. Altri, che avevano occasione di andare di notte di casa in casa, lo avevano visto avvicinarsi impudico, facendo smorfie e boccacce villane e sbattendo in modo grottesco le sue ali di pipistrello.

Comunque, strano a dirsi, non si sapeva di casi in cui la castità di una donna avesse subito una vera offesa da parte del disgustoso incubo. Aveva avvicinato molte donne, e le aveva assai terrorizzate per la laida lussuria del suo comportamento, ma non ne aveva toccata nessuna. Perfino in quel tempo di orrore per il corpo e per lo spirito, ci furono di quelli che si presero gioco in modo indecente di questa singolare astensione da parte del demonio, e dissero che stava cercando in tutta Vyones una che non aveva ancora trovato.

                                                                   14

L'alloggio di Blaise Reynard era separato dalla taverna di Jean Villom, il padre di Nicoletta, solo da un vicolo buio e storto. In questa taverna Reynard soleva trascorrere le sue sere, per quanto questa abitudine fosse mal vista da Jean Villom ed egli avesse ricevuto dalla stessa ragazza solo scarsi incoraggiamenti.

Reynard veniva comunque tollerato per la sua borsa piena e per la capacità pressoché senza limiti di bere. Arrivava presto ogni sera, al calare delle tenebre, e rimaneva seduto in silenzio per ore ed ore, fissando Nicolette con occhi cupi e ardenti e tracannando senza allegria i potenti vini di Averoigne. A parte il desiderio di conservare un così buon cliente, la gente della taverna aveva un po' paura di lui, per la sua dubbia fama di quasi stregone e per la sua indole scontrosa. Non desideravano contraddirlo più del necessario.

Come tutti a Vyones, Reynard aveva sentito il peso soffocante del terrore superstizioso, in quelle notti in cui il demoniaco predatore volteggiava  sulla  città  e  poteva calare sullo sventurato viandante in ogni momento, in ogni luogo. Niente che non fosse l'urgente e tirannica ossessione del desiderio quasi bestiale che Nicolette provocava in lui, avrebbe potuto indurlo ad attraversare col buio il vicolo ventoso che portava alla taverna.

Le notti d'autunno erano state senza luna. Quella sera, che seguiva il sacrilegio compiuto dal demone assassino nella Cattedrale, una nuova luna crescente abbassava il suo fragile corno color sangue sulle cime delle case mentre Reynard usciva dal suo alloggio alla solita ora.

Nel vicolo stretto e fiancheggiato da alti muri, egli perse la vista del suo raggio rassicurante, e tremò di paura mentre si affrettava attraverso ombre fugate solo dalle rare e timide luci di qualche alta finestra. Ad ogni svolta, ad ogni angolo, gli sembrava che nell'oscurità si addensasse l'empia ombra delle ali sataniche, e che da un momento all'altro potesse apparire nel buio il bagliore di un occhio ripugnante, acceso dagli eterni tizzoni dell'Inferno.

Quando giunse alla fine del vicolo, vide, con un moto di panico, che la luna crescente era ora nascosta da una nuvola che aveva la forma di strane ali distese e arcuate.

Raggiunse la taverna con un senso di grande sollievo, perché aveva cominciato a provare la netta sensazione che qualcuno o qualcosa, impercettibile e invisibile, lo stesse seguendo, con una presenza che sembrava caricare l'oscurità di una arcana minaccia. Entrò, e richiuse in fretta la porta dietro di sé, come se la stesse sbattendo in faccia ad un terribile persecutore.

Quella sera c'era poca gente nella taverna. La giovane Nicolette stava servendo del vino ad un commesso di merceria, un certo Raoul Coupain, un bel giovane giunto da poco in città, e rideva agli scherzi volgari e agli approcci amorosi di questo Raoul con un'allegria che Reynard giudicava sconveniente. Jean Villom stava commentando a voce bassa le ultime malvagità dei demoni con due amici, ad un tavolo nell'angolo più lontano del locale, e beveva non meno dei suoi clienti.

 

                                                                    15

Sospettando che Raoul Coupain fosse un rivale favorito, Reynard, arso dalla gelosia per la sua presenza, sedeva in silenzio e lanciava sguardi malevoli alla coppia che amoreggiava. Nessuno sembrava aver notato la sua entrata, perché Villom continuò a parlare con i suoi amici senza interrompersi, e Nicolette e il suo compagno apparivano ugualmente distratti.

Presto, in Reynard, alla rabbia gelosa si aggiunse il risentimento di uno che si senta deliberatamente ignorato. Per attirare l'attenzione, cominciò a battere pesantemente col pugno sul tavolo.

Villom, che per tutto il tempo era rimasto seduto di spalle senza nem-meno girarsi sullo sgabello, chiamò Nicolette e le disse di servire Reynard. Col viso rivolto all'indietro, in un sorriso a Coupain, la giovane si avviò lentamente e, con aperta riluttanza, al tavolo dell'intagliatore.

Nicolette era piccola e formosa, con capelli biondo-rossi che cadevano in fitti riccioli intorno all'ovale minuto e delizioso del volto, e portava un aderente abito verde che rivelava le forme sode e seducenti del petto e dei fianchi. Aveva un'aria sdegnosa e un po' fredda perché Reynard non le piaceva e, qualche volta, soffriva di dover nascondere la sua avversione. Ma per Reynard lei era più bella e desiderabile che mai, ed egli provò l'impulso selvaggio di afferrarla tra le braccia e portarla via di peso dalla taverna, sotto gli occhi di Raoul Coupain e di suo padre.

«Portami una brocca di La Frenaie», ordinò con voce aspra, che tradiva il risentimento misto al desiderio.

Scuotendo un po' il capo sdegnosa, e continuando a guardare Coupain, la ragazza obbedì. Mise davanti a Reynard il vino forte e sanguigno senza dire una parola, e tornò indietro a riprendere gli scherzi del commesso.

Reynard cominciò a bere, ed il potente vino servì soltanto a dare fuoco all'astio e alla passione che covava. Gli occhi gli si fecero velenosi e le labbra increspate divennero maligne come quelle delle gronde che aveva scolpito sulla cattedrale. Una rabbia funesta e selvaggia, come la collera tetra di un fauno frustrato nei suoi desideri, bruciava dentro di lui; ma si sforzò di reprimerla e rimase in silenzio, immobile, tranne che per il frequente riempire e svuotare la coppa.

Anche Raoul Coupain aveva consumato una generosa quantità di vino. Di conseguenza presto si fece più audace nelle sue profferte amorose e tentò di baciare la mano di Nicolette, che ora sedeva su una panca accanto a lui. La mano fu allegramente sottratta e poi, dopo che la sua proprietaria ebbe dato a Raoul uno schiaffo leggero e scherzoso, fu concessa a colui che la reclamava con modi che colpirono Reynard come se fossero quelli di una sgualdrina.

Ringhiando parole irate e sconnesse, in preda al folle impulso di scagliarsi sul fortunato rivale ed ucciderlo con le sue mani nude, egli balzò in piedi e mosse verso l'allegra coppia. Uno degli uomini che stavano nell'angolo lontano notò il suo movimento ed avvertì Villom. Il taverniere si alzò, un po' barcollante per le abbondanti bevute, e attraversò sospettoso la stanza, con gli occhi puntati su Reynard e pronto ad intervenire in caso di violenza.

                                                                  16

Reynard ebbe un attimo di indecisione poi continuò, reso quasi pazzo dall'odio crescente che provava per tutti loro. Desiderava ardentemente uccidere Villom e Coupain, desiderava uccidere gli odiosi individui che lo fissavano dall'angolo opposto e poi, sopra i loro cadaveri strangolati, infuriare con baci ardenti e veementi carezze sulle labbra ed il corpo riluttanti di Nicolette.

Vedendo avvicinarsi l'intagliatore e conoscendone il temperamento malvagio e la fosca gelosia, anche Coupain si alzò in piedi e di nascosto impugnò un piccolo pugnale che portava sotto il mantello. Nel frattempo Jean Villom aveva interposto tra i due rivali la sua massiccia corporatura. Egli desiderava evitare la possibile rissa per il buon nome del locale.

«Torna al tuo tavolo, intagliatore,» ruggì bellicoso, alla volta di Reynard.

Non essendo armato, e vedendosi in minoranza, Reynard si fermò di nuovo, anche se la rabbia ribolliva ancora in lui come il contenuto del calderone di un mago. Con rossi lampi di fiamma omicida negli occhi stretti e cupi, fissò le tre persone davanti a lui e vide, oltre di loro, con consapevolezza più istintiva che reale, i vetri a listelli delle finestre della taverna, in cui la stanza si rifletteva confusamente, con le sue candele ardenti, le sue stoviglie lucenti, le teste di Coupain e Villom e della giovane Nicolette e, tra loro, la sua stessa faccia tenebrosa.

Stranamente e, sembrerebbe, senza alcuna relazione logica, si ricordò in quel momento della nuvola scura ed ambigua che aveva visto sulla luna, e dell'insistente sensazione di vaga persecuzione che aveva provato nel percorrere il vicolo.

Allora, mentre ancora fissava indeciso il gruppo davanti a lui ed il suo vago  riflesso nel vetro,  si udì  uno  strepitoso frastuono, e i vetri della finestra con la loro scena dipinta andarono in frantumi all'interno.

Prima che i pezzi di vetro avessero raggiunto il pavimento della taverna, una forma scura e mostruosa volò nella stanza, con un pesante sbattere di ali che fece agitare la fiamma delle candele e danzare le ombre come un sabba di demoni deformi.

La cosa rimase sospesa per un attimo e, mentre Reynard e gli altri si voltavano verso di lei, nella profonda oscurità sembrò torreggiare sulle loro teste più in alto del soffitto stesso. Tutti videro lo splendore maligno dei suoi occhi, simile a tizzoni del profondo Tartaro, e l'odioso contrarsi delle sue labbra, che scoprì denti più aguzzi e più lunghi di quelli dei serpenti velenosi.

Dietro di lei veniva adesso, attraverso la finestra rotta, un altro tenebroso mostro volante, che sbatteva rumorosamente le ali nervate e appuntite. C'era qualcosa di lascivo nel modo stesso in cui volava, come nel volo dell'altro si esprimevano odio omicida e malvagità. La sua faccia da satiro si storceva orribilmente in un immutabile ghigno e, mentre rimaneva sospeso accanto al primo intruso, i suoi occhi concupiscenti non abbandonavano Nicolette.

Reynard, come gli altri, era pietrificato da una costernazione e da un attonimento così grandi, che quasi gli impedivano di provare terrore.

                                                                   17

Immobili, senza riuscire ad emettere alcun suono, essi assistevano alla demoniaca intrusione. Ma la costernazione di Reynard era mista ad un inesprimibile senso di sorpresa e ad un tremendo riconoscimento. Solo la giovane, con un folle grido di orrore, si girò e cominciò a correre attraverso la stanza.

Come se quell'urlo fosse stato la provocazione necessaria, i due demoni si avventarono sulle loro vittime. Uno, sfoderati gli artigli, con un colpo feroce squarciò la gola di Jean Villom che cadde con un rantolo soffocato dal sangue e poi, nello stesso modo, assalì Raoul Coupain. L'altro, nel frattempo, aveva inseguito e sopraffatto la ragazza che fuggiva, e la teneva stretta nei suoi bestiali avambracci, con le ali che la avvolgevano come un drappo infernale.

La stanza si riempì di un turbine di lamenti, di un caos di grida selvagge e di ombre che lottavano e si agitavano. Reynard udì il gutturale ringhio del mostro omicida, mentre strappava con i denti il corpo di Coupain; e udì la lubrica risata dell'incubo,  sopra gli strepiti isterici della ragazza terrorizzata. Poi un vortice d'aria spense le candele che brillavano grottesche, e nell'oscurità Reynard ricevette un violento colpo, come di un oggetto scagliato, forse di un'ala, ma pesante e duro come pietra. Cadde e perse i sensi.

Annebbiato e confuso, Reynard si sforzava di riprendere coscienza. Per un breve intervallo non riuscì a ricordare dove si trovava, né cosa fosse accaduto. Quando aprì gli occhi, si preoccupò per il doloroso pulsare delle sue tempie, per il ronzio di voci agitate che lo circondava, per il risplendere di tante luci e l'affollarsi di tanti volti ma, soprattutto, per la sensazione che fosse avvenuta una catastrofe sconosciuta e terribile, un errore inimmaginabile. E questa sensazione lo oppresse non appena si affacciò alla coscienza.

Lenta e riluttante, gli tornò la memoria, e con essa la piena coscienza della situazione e di ciò che lo circondava. Giaceva sul pavimento della taverna, ed il sangue caldo e vischioso gli scorreva attraverso la faccia dalla ferita al capo, che gli doleva.

La lunga stanza era affollata di gente dei dintorni, entrata con torce, coltelli e alabarde. Tutti guardavano i corpi di Villom e Coupain, che giacevano tra pozze di sangue mischiate col vino e i pezzi delle suppellettili e del vasellame fracassati.

Nicolette, con il vestito verde a brandelli ed il corpo schiacciato dagli abbracci del demonio, si lamentava flebilmente, mentre le donne le si affollavano intorno con inutili strilli e domande che la poverina non riusciva ad udire, né tantomeno a capire. I due amici di Villom, orribilmente straziati e mutilati, giacevano morti sotto il tavolo rovesciato.

Stupefatto dall'orrore, ed ancora stordito per il colpo che gli aveva fatto perdere i sensi, Reynard si rimise in piedi barcollando, e si ritrovò circondato immediatamente da voci e volti interrogativi.

Alcuni erano un po' sospettosi, dal momento che nella taverna lui era il solo sopravvissuto, ed aveva per di più una brutta fama.

                                                                   18

Ma le sue risposte alle domande presto li convinsero che il nuovo crimine era interamente opera degli stessi demoni che infestavano Vyones da settimane in modo così mostruoso.

Reynard, comunque, non riuscì a dir loro tutto quello che aveva visto, né a confessare le radici più lontane della sua paura e del suo sbalordimento. Il segreto di ciò che sapeva era racchiuso nel ribollente abisso della sua anima torturata e oppressa dal demonio.

In qualche modo lasciò la locanda devastata, si fece largo attraverso la folla che si assiepava ammutolita dall'orrore, e si ritrovò solo per le strade, nel cuore della notte. Incurante del pericolo, e senza sapere dove andava, vagò per ore ed ore attraverso Vyones e, mentre vagava, giunse dinanzi alla sua bottega.

Senza nessuna possibile ragione, entrò, e ne uscì con un pesante martello che portò con sé nelle sue successive peregrinazioni. Poi, guidato da un tormento terribile ed inesplicabile, continuò finché l'alba non ebbe toccato con uno spettrale luccichio le guglie e i tetti delle case.

Per una spinta di cui non era del tutto consapevole, i suoi passi lo avevano condotto alla piazza della Cattedrale. Ignorando il meravigliato sagrestano che aveva appena aperto le porte, entrò e cercò una scalinata che saliva serpeggiando fino alla torre su cui erano sistemate le sue gronde.

Nella gelida e livida luce del mattino senza sole, uscì sul tetto e, sporgendosi pericolosamente sull'orlo, esaminò le figure scolpite. Non si sorprese affatto: ebbe solo la spaventosa conferma di un timore troppo orrendo perché potesse esprimerlo, quando vide che i denti e gli artigli del maligno grifone dalla testa felina erano macchiati di sangue raggrumato, e che brandelli di stoffa verde pendevano dagli artigli del libidinoso satiro dalle ali di pipistrello.

Sembrò a Reynard, nell'incerta luce cinerea, che un'aria di inesprimibile trionfo, di intollerabile ironia, fosse stampata sulla faccia di quest'ultima creatura. La fissò spaventato e affascinato, con disgusto e rabbia dolorosa e impotente, e un pentimento più profondo di quello dei dannati sorse dentro di lui come un'ondata soffocante.

Quasi non si accorse di aver sollevato il martello di ferro e di aver colpito selvaggiamente il profilo cornuto del satiro, finché non udì il cupo e rabbioso fragore dell'impatto e si ritrovò a vacillare sull'orlo del tetto, cercando di mantenere l'equilibrio.

Il furioso colpo aveva semplicemente scheggiato i tratti della gronda, senza cancellarne la maligna espressione di lussuria e di esultanza. Reynard alzò di nuovo il pesante martello.

Il colpo andò a vuoto. Perché, mentre colpiva, l'intagliatore si sentì sollevare e trascinare all'indietro da qualcosa che affondava nella sua carne   come  mille  coltelli.  Barcollò,   i  piedi gli scivolarono, e finì disteso sul bordo di granito, con la testa e le spalle penzolanti nel vuoto, sopra la strada buia e deserta.

Quasi svenuto e in preda alla nausea per il dolore, vide sopra di lui l'altra gronda,   con  gli  artigli  della zampa  destra  saldamente  conficcati  nella  sua

                                                                   19

spalla. Gli strapparono la pelle ancora più in profondità, con una terribile presa. Il mostro incombeva su di lui come una bestia favolosa sulla sua preda e Reynard si sentì scivolare vertiginosamente attraverso le grondaie della Cattedrale, con la gronda che si girava e si contorceva, come per riassumere la sua posizione normale sul vuoto. Il suo movimento lento e inesorabile sembrava far parte della vertigine di Reynard. La stessa torre si inclinava e ruotava sotto di lui, come in un incubo crudele.

Confusamente, nello stordimento della paura e dell'agonia, Reynard vide l'impassibile faccia da tigre curva su di lui, con gli orridi denti scoperti in un'eterna e diabolica risata di odio. In qualche modo si era ritrovato in mano il martello. Con l'istintivo impulso di difendersi, colpì la gronda, i cui tratti crudeli si avvicinavano a lui come una distorta visione del delirio e della pazzia.

Anche mentre colpiva, il vertiginoso movimento continuò, e Reynard sentì che gli artigli lo trascinavano fuori, nel vuoto. Per via della sua posizione supina e precaria, il colpo non raggiunse l'odiosa faccia e cadde con sordo fragore sulla zampa, i cui artigli ricurvi erano conficcati nella sua palla come ganci di macelleria. Il fragore terminò con uno schianto acuto e la gronda inclinata sparì dalla sua vista, mentre lui cadeva.

Non vide più nulla, tranne la massa scura della torre della Cattedrale, che sembrava levarsi in volo, lontano da lui, e slanciarsi incredibilmente in alto, nei cieli lividi e senza stelle in cui il sole tardivo non era ancora sorto.

Fu l'Arcivescovo Ambrosius, che si recava alla prima Messa, a trovare il corpo sfracellato di Reynard, che giaceva a faccia in giù nella piazza. Ambrosius si fece il segno della croce, sussultando dall'orrore a quella vista. Poi, quando vide la cosa che era ancora attaccata alla spalla di Reynard, ripeté il gesto con più di una pia sollecitudine.

Si curvò ad esaminarla. Con l'infallibile memoria di un vero amante dell'arte, la riconobbe immediatamente. Poi, per lo stesso chiaro collegamento, vide  che la  zampa  di pietra, i cui  artigli affondavano così profondamente nella carne di Reynard, avevano subito un'alterazione molto strana. La zampa, da quel che ricordava, avrebbe dovuto essere rilassata e leggermente ricurva; ma ora era rigidamente allungata e spinta all'esterno, come se, zampa di una creatura vivente, si fosse stesa per afferrare qualcosa, o avesse trascinato un pesante fardello con i suoi artigli ferini.

 

FINE

(Trad. Daniela Galdo)

 

 

 

 

 

 

                                                                   20

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                    21