1138: IL FABBRICANTE DI
GRONDE
(The Maker of Gargoyles,
agosto 1932)
Tra
le molte gronde scolpite che lanciavano occhiate corrucciate e maliziose dalla
cattedrale di Vyones, di nuova costruzione, due spiccavano sulle altre per la
raffinata fattura e la suprema bizzarria. Entrambe erano state elaborate da
Blaise Reynard, un intagliatore di pietra nativo di Vyones, che da poco era
ritornato dopo un lungo soggiorno nelle città della Provenza ed era riuscito ad
ottenere di lavorare alla Cattedrale, quando già l'opera di costruzione e
decorazione, che aveva richiesto tre anni, era per lo più completata.
Vedendo
la meravigliosa maestria dimostrata da Reynard, l'Arcivescovo Ambrosius
rimpianse di non aver potuto affidare a questo artigiano abile e raffinato
l'esecuzione di tutte le gronde. Ma altra gente, con gusti meno liberali di
quelli di Ambrosio, fu udita esprimere una diversa opinione.
Probabilmente
questa opinione si tingeva dell'avversione personale che generalmente Reynard
ispirava alla gente di Vyones fin da quand'era ragazzo, e che al suo ritorno
era riesplosa più o meno violenta. A torto o a ragione, la sua stessa
fisionomia lo destinava da sempre al pubblico sfavore: aveva una carnagione
eccessivamente scura, con capelli e barba di un nerobluastro innaturale, e
occhi a mandorla, disuguali, che gli davano un'aria astuta e sinistra. I suoi
modi taciturni e cupi erano quelli che la gente superstiziosa è solita
attribuire ad esperti Negromanti o ai loro complici, e c'erano di quelli che di
nascosto lo accusavano di aver fatto lega con Satana. Comunque le accuse, anche
verso la fine, erano poco più che vaghe: voci anonime, senza un'autentica
prova.
Ad
ogni modo, la gente che sospettava Reynard di patti col diavolo, per un po’
prese ad addurre come prova sufficiente le due gronde. Nessun uomo che non
fosse inspirato dal Grande Nemico, sostenevano, avrebbe potuto scolpire una
cosa così assolutamente malvagia e maligna, avrebbe potuto incarnare nella
semplice pietra, con così consumata maestria, i lineamenti viventi del più
demoniaco di tutti i Peccati Mortali.
Le
due gronde erano appollaiate agli opposti di un'alta torre della cattedrale.
Una rappresentava un
mostro crudele e ringhiante,
dalla testa felina, con le labbra ritratte su formidabili zanne, ed occhi che
sfolgoravano intollerabilmente torvi sotto le sopracciglia feline. Questa
creatura aveva artigli ed ali da grifone, e sembrava star lì sospeso, pronto ad
avventarsi sulla città di Vyones come un'arpia sulla sua preda.
Il
suo compagno era un satiro con le corna, dalle grandi ali di pipistrello che
sembravano servirgli ad errare per le caverne degli Inferi, con artigli
affilati ed arcuati, ed uno sguardo che covava una lussuria satanica, come se
stesse divorando con gli occhi l'inerme oggetto del suo immondo desiderio.
Entrambe
le figure erano complete, anche nella parte posteriore, e non sembravano
semplicemente delle convenzionali aggiunte al tetto.
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Ci
si sarebbe aspettati che da un momento all'altro uscissero dalla pietra in cui
erano incastrate.
Ambrosius,
amante dell'arte, era chiaramente rimasto deliziato da queste creazioni, sia
per l'alta perizia tecnica che per la verosimiglianza del lavoro di scultura.
Ma altri, compresi molti dignitari della Chiesa più modesti, erano piuttosto
scandalizzati, e dissero che l'artigiano aveva realizzato con queste figure il
ritratto visibile dei propri vizi, per la gloria di Satana più che per quella
di Dio. Insomma, aveva dato prova di empietà. Naturalmente essi ammettevano che
le gronde richiedessero una certa bizzarria nella rappresentazione; ma in
questo caso i confini del lecito erano stati ampiamente superati.
Comunque,
con il completamento della Cattedrale e a dispetto di tutte le critiche
contrarie, le gronde di Blaise Reynard - come tutti gli altri dettagli
dell'edificio - furono presto date per scontate grazie alla semplice
familiarità quotidiana, ed infine furono quasi dimenticate.
Lo
scandalo si placò, e lo stesso intagliatore, sebbene la popolazione cittadina
continuasse a guardarlo di traverso, poté ottenere altro lavoro grazie al
favore di raffinati protettori. Rimase a Vyones, e fece la corte, sebbene con
scarso successo, alla figlia di un taverniere, una certa Nicoletta Villom, di
cui si diceva che fosse innamorato da lungo tempo, nel modo scontroso e
riservato che gli era proprio.
Ma
era lo stesso Reynard che non dimenticava le gronde. Spesso, passando davanti
al superbo edificio della Cattedrale, soleva alzare lo sguardo verso di loro,
con una segreta soddisfazione di cui difficilmente avrebbe potuto trovare la
causa.
Sembrava
che rivestissero per lui un significato mistico e raro, che indicassero un
trionfo oscuro ma piacevole.
Se
gli avessero chiesto il motivo della sua soddisfazione, avrebbe detto di essere
orgoglioso della propria abilità. Non avrebbe detto, e forse non avrebbe
nemmeno saputo, che in una delle gronde aveva racchiuso tutto il suo aspro
rancore, tutto il fiele e l'astio che nutriva per la gente di Vyones, che
l'aveva sempre odiato, e che aveva posto l'immagine di questo rancore a
guardare la città malevolmente e per sempre da un'altezza superba.
E
forse non avrebbe neanche immaginato di aver espresso, nella seconda gronda, la
sua ostinata passione di satiro per la giovane Nicoletta. Una passione che lo
aveva riportato alla detestata città della sua giovinezza dopo anni di
vagabondaggio. Una passione straordinariamente tenace, diversa dall'ordinaria
libidine di una natura brutale come quella di Reynard.
Per
l'intagliatore, anche più che per quelli che avevano criticato e detestato le
sue opere, le gronde erano sempre vive: esse possedevano una vitalità e una
sensibilità proprie. E sembravano vive soprattutto quando arrivava la fine
dell'estate e le piogge autunnali si raccoglievano sopra Vyones.
Allora,
quando le grondaie piene della Cattedrale versavano l'acqua piovana sulle
strade, si sarebbe potuto pensare che il fetido sputo della malevolenza e la
stessa bava di una sudicia concupiscienza si fossero in qualche modo mescolati
con l'acqua che sgorgava a ruscelli dalle bocche delle gronde.
A
quel tempo, nell'anno del Signore 1138, Vyones era la città più importante
della provincia di Averoigne. Da un lato e dall'altro la grande foresta
infestata d'ombre, su cui circolavano equivoche leggende di fantasmi e lupi
mannari, giungeva fin sotto le mura della città, allungando su di lei le sue
ombre a sera e a prima mattina. Sugli altri lati si stendevano campi coltivati,
graziosi ruscelli che serpeggiavano tra salici e pioppi, e strade che correvano
nella pianura fino agli alti castelli di nobili signori e alle regioni che
confinavano con Averoigne.
La
città era prospera, e non aveva mai condiviso la cattiva fama della foresta che
la delimitava. Da lungo tempo era santificata dalla presenza di due conventi e
di un monastero, ed ora che la Cattedrale progettata da tanto tempo era stata
completata, si pensava che Vyones avrebbe goduto, per il futuro, dell'ulteriore
protezione di una più augusta santità, e che demoni, streghe e incubi, si
sarebbero tenuti alla larga da quel luogo favorito dal cielo, dimostrando ancor
più prudenza di prima.
Naturalmente,
come in tutte le città medievali, si erano verificati occasionalmente episodi
di stregoneria e di possessione demoniaca e, una volta o due, le pericolose
tentazioni di incubi avevano intaccato la pia virtù di Vyones. Ma questo era
prevedibile, in un mondo in cui il Diavolo e le sue opere erano sempre più o
meno in auge. Nessuno invece avrebbe potuto immaginare il regno di orrori
infernali che doveva rendere spaventosi gli ultimi mesi autunnali che seguirono
l'erezione della Cattedrale.
Per
rendere la faccenda più evidente, e più terribilmente blasfema di quanto
sarebbe stata altrimenti, il primo di questi orrori si verificò proprio nei
dintorni della Cattedrale e quasi sotto la sua ombra protettrice.
Due
uomini, un rispettabile venditore di stoffe di nome Guillaume Maspier ed un
ugualmente rispettabile vinaio, un certo Jerome Mazzal, stavano facendo ritorno
ai loro alloggi nelle ultime ore di una sera di novembre, dopo aver bevuto i
vini bianchi e rossi di più di una taverna.
Secondo
Maspier - il solo che sopravvisse per raccontare la storia - stavano passando
lungo una strada che costeggiava la piazza della Cattedrale, e potevano vedere
la cupola del grande edificio stagliarsi contro le stelle, quando un mostro
volante, nero come la fuliggine di Abaddon, era sceso su di loro dal cielo ed
aveva assalito Jerome Mazzal, colpendolo con le sue pesanti ali ed afferrandolo
con i lunghi denti e gli artigli.
Maspier
non poté descrivere la creatura nei particolari, perché non l'aveva vista che
confusamente, nella penombra della strada non illuminata. Inoltre, il destino
del suo compagno, che era finito sull'acciottolato con il diavolo nero che
ringhiava e gli squarciava la gola, l'aveva indotto a non soffermarsi.
Si
era allontanato dalla scena con tutta la velocità di cui era capace, e si era
fermato solo presso la casa di un prete, molte strade più in là dove,
rabbrividendo e singhiozzando, aveva raccontato la sua avventura.
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Armato
di Acqua Santa e aspersorio, e accompagnato da molti cittadini che portavano
torce, bastoni e alabarde, il prete fu condotto da Maspier sul luogo
dell'orribile avvenimento.
Lì
fu rinvenuto il corpo di Mazzal, che aveva il viso spaventosamente straziato e
il petto e la gola solcati da ferite sanguinanti. Il demoniaco assalitore era
volato via, e per quella notte non fu più visto, né incontrato. Ma quelli che
avevano visto la sua opera ritornarono a casa atterriti, credendo che una
creatura del più profondo inferno fosse venuta a visitare la città, e forse a
rimanerci.
Il
giorno dopo, quando la storia diventò di dominio pubblico, si diffuse la
costernazione, e il clero compì riti di esorcismo contro l'invasione del
demonio in tutti i luoghi pubblici e sulle soglie delle case. Ma spruzzare
Acqua Santa e borbottare le formule stabilite fu vano: perché lo spirito del
male era ancora in giro e diede prova della sua malvagità ancora una volta, la
notte che seguì la spaventosa morte di Jerome Mazzal.
Questa
volta reclamò due vittime, cittadini molto probi e piuttosto importanti, su cui
scese in uno stretto vicolo, uccidendone uno immediatamente e trascinandone un
altro per le spalle, mentre cercava di fuggire.
Le
grida laceranti dei due innocenti e il ringhio gutturale del demonio furono
uditi dalla gente che abitava le case lungo il vicolo, e quelli che furono
abbastanza coraggiosi da guardare dalla finestra, videro allontanarsi l'infame
assalitore, cancellando le stelle d'autunno coi nero e deforme sudiciume delle
sue ali, mentre si librava in volo sulle case, orribile e minaccioso.
Dopo
di ciò, poca gente si avventurava fuori di notte, a meno che non ce ne fosse
terribile ed urgente bisogno. Quelli che lo facevano, giravano armati e in
compagnia, tutti muniti di fiaccole, pensando così di spaventare e scacciare il
demonio: lo ritenevano infatti una creatura delle tenebre, che per natura
aborriva la luce e si ritirava davanti a lei.
Ma
questo era un demonio di insolita audacia, perché procedette all'attacco di più
di una compagnia di valenti cittadini, senza curarsi delle torce ardenti che
gli venivano scagliate in faccia, oppure spegnendole col vento puzzolente delle
sue grandi ali.
Evidentemente
era uno spirito animato da un odio micidiale, perché tutte le persone che
afferrava venivano atrocemente straziate o ridotte a brandelli dai suoi denti e
dai suoi artigli. Quelli che l'avevano visto ed erano sopravvissuti, lo
descrivevano in vari modo e con molta ambiguità, ma tutti concordavano
nell'attribuirgli la testa di un animale feroce e le ali di un mostruoso
uccello.
Alcuni,
i più dotti in demologia, erano inclini ad identificarlo con Modo, lo spirito
dell'assassinio; altri lo prendevano per uno dei grandi luogotenenti di Satana,
forse Amaimon e Alastor, reso pazzo dall'esasperazione per l'incrollabile
supremazia di Cristo nella Città Santa di Vyones.
Presto,
con l'allargarsi del campo d'azione di questo satanico predone e assassino,
prese il sopravvento un terrore incredibile, un buio grumo di superstizione,
un'agitata e tormentata ossessione del male, che è impossibile suggerire con un
linguaggio moderno.
Persino
alla luce del sole, le gotiche ali dell'incubo sembravano incombere oppressive
sulla città, e la paura era dovunque, come il fetido contagio di un'epidemia di
peste. Gli abitanti seguivano la loro strada tremando e pregando, e lo stesso
Arcivescovo, come il clero minore, confessava la propria incapacità di tener
testa al crescente terrore. Si mandò un emissario a Roma, perché procurasse
dell'acqua, benedetta in modo speciale dal Papa. Soltanto questo, pensavano,
sarebbe stato sufficientemente efficace da scacciare il terribile visitatore.
Nel
frattempo l'orrore crebbe e giunse al culmine. Una sera, verso la metà di
novembre, l'Abate del monastero locale di Cordeliers, che era andato ad
amministrare l'Estrema Unzione ad un amico morente, fu afferrato del diavolo
nero proprio mentre si apprestava a varcare la soglia della casa, e trucidato
nello stesso modo atroce delle altre vittime.
A
questo crimine doppiamente infamante, si aggiunse presto un sacrilegio
difficilmente credibile. Nella stessa notte, quando il corpo straziato
dell'Abate giaceva su un ricco catafalco nella Cattedrale, mentre i ceri
ardevano e si diceva Messa, il demonio penetrò nell'alta navata, irrompendo
dalla porta aperta, spense tutte le candele con un solo sbattere delle sue ali
nere, e trascinò non meno di tre dei preti che officiavano, ad una morte empia
nell'oscurità.
Ora
tutti sentivano che le Forze del Male stavano sferrando un attacco veramente
formidabile contro la cristiana probità di Vyones. Nella situazione di abietto
terrore, di disordine e
demoralizzazione estremi che
fecero seguito a questa nuova atrocità, si verificò un deprecabile rigurgito
del crimine umano, di delitti, furti e rapine, oltre a segrete manifestazioni
di satanismo e celebrazioni di Messe Nere, cui partecipavano molti neofiti.
Allora,
in mezzo a tutta quella paura e quella confusione da pandemonio, si disse che a
Vyones era comparso un secondo diavolo. Che al demonio assassino ora si
accompagnava uno spirito ugualmente tenebroso e deforme, che aveva intenzione
lascive e non molestava altri che donne. Questo essere aveva terrorizzato
parecchie signore, signorine e serve che, in preda ad una vera e propria
isteria, si erano viste spiare dalle finestre delle loro camere da letto.
Altri, che avevano occasione di andare di notte di casa in casa, lo avevano
visto avvicinarsi impudico, facendo smorfie e boccacce villane e sbattendo in
modo grottesco le sue ali di pipistrello.
Comunque,
strano a dirsi, non si sapeva di casi in cui la castità di una donna avesse
subito una vera offesa da parte del disgustoso incubo. Aveva avvicinato molte
donne, e le aveva assai terrorizzate per la laida lussuria del suo
comportamento, ma non ne aveva toccata nessuna. Perfino in quel tempo di orrore
per il corpo e per lo spirito, ci furono di quelli che si presero gioco in modo
indecente di questa singolare astensione da parte del demonio, e dissero che
stava cercando in tutta Vyones una che non aveva ancora trovato.
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L'alloggio
di Blaise Reynard era separato dalla taverna di Jean Villom, il padre di
Nicoletta, solo da un vicolo buio e storto. In questa taverna Reynard soleva
trascorrere le sue sere, per quanto questa abitudine fosse mal vista da Jean
Villom ed egli avesse ricevuto dalla stessa ragazza solo scarsi
incoraggiamenti.
Reynard
veniva comunque tollerato per la sua borsa piena e per la capacità pressoché
senza limiti di bere. Arrivava presto ogni sera, al calare delle tenebre, e
rimaneva seduto in silenzio per ore ed ore, fissando Nicolette con occhi cupi e
ardenti e tracannando senza allegria i potenti vini di Averoigne. A parte il
desiderio di conservare un così buon cliente, la gente della taverna aveva un
po' paura di lui, per la sua dubbia fama di quasi stregone e per la sua indole
scontrosa. Non desideravano contraddirlo più del necessario.
Come
tutti a Vyones, Reynard aveva sentito il peso soffocante del terrore
superstizioso, in quelle notti in cui il demoniaco predatore volteggiava sulla
città e poteva calare sullo sventurato viandante in
ogni momento, in ogni luogo. Niente che non fosse l'urgente e tirannica
ossessione del desiderio quasi bestiale che Nicolette provocava in lui, avrebbe
potuto indurlo ad attraversare col buio il vicolo ventoso che portava alla
taverna.
Le
notti d'autunno erano state senza luna. Quella sera, che seguiva il sacrilegio
compiuto dal demone assassino nella Cattedrale, una nuova luna crescente
abbassava il suo fragile corno color sangue sulle cime delle case mentre
Reynard usciva dal suo alloggio alla solita ora.
Nel
vicolo stretto e fiancheggiato da alti muri, egli perse la vista del suo raggio
rassicurante, e tremò di paura mentre si affrettava attraverso ombre fugate
solo dalle rare e timide luci di qualche alta finestra. Ad ogni svolta, ad ogni
angolo, gli sembrava che nell'oscurità si addensasse l'empia ombra delle ali
sataniche, e che da un momento all'altro potesse apparire nel buio il bagliore
di un occhio ripugnante, acceso dagli eterni tizzoni dell'Inferno.
Quando
giunse alla fine del vicolo, vide, con un moto di panico, che la luna crescente
era ora nascosta da una nuvola che aveva la forma di strane ali distese e
arcuate.
Raggiunse
la taverna con un senso di grande sollievo, perché aveva cominciato a provare
la netta sensazione che qualcuno o qualcosa, impercettibile e invisibile, lo
stesse seguendo, con una presenza che sembrava caricare l'oscurità di una
arcana minaccia. Entrò, e richiuse in fretta la porta dietro di sé, come se la
stesse sbattendo in faccia ad un terribile persecutore.
Quella
sera c'era poca gente nella taverna. La giovane Nicolette stava servendo del
vino ad un commesso di merceria, un certo Raoul Coupain, un bel giovane giunto
da poco in città, e rideva agli scherzi volgari e agli approcci amorosi di
questo Raoul con un'allegria che Reynard giudicava sconveniente. Jean Villom
stava commentando a voce bassa le ultime malvagità dei demoni con due amici, ad
un tavolo nell'angolo più lontano del locale, e beveva non meno dei suoi
clienti.
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Sospettando
che Raoul Coupain fosse un rivale favorito, Reynard, arso dalla gelosia per la
sua presenza, sedeva in silenzio e lanciava sguardi malevoli alla coppia che
amoreggiava. Nessuno sembrava aver notato la sua entrata, perché Villom
continuò a parlare con i suoi amici senza interrompersi, e Nicolette e il suo
compagno apparivano ugualmente distratti.
Presto,
in Reynard, alla rabbia gelosa si aggiunse il risentimento di uno che si senta
deliberatamente ignorato. Per attirare l'attenzione, cominciò a battere
pesantemente col pugno sul tavolo.
Villom,
che per tutto il tempo era rimasto seduto di spalle senza nem-meno girarsi
sullo sgabello, chiamò Nicolette e le disse di servire Reynard. Col viso
rivolto all'indietro, in un sorriso a Coupain, la giovane si avviò lentamente
e, con aperta riluttanza, al tavolo dell'intagliatore.
Nicolette
era piccola e formosa, con capelli biondo-rossi che cadevano in fitti riccioli
intorno all'ovale minuto e delizioso del volto, e portava un aderente abito
verde che rivelava le forme sode e seducenti del petto e dei fianchi. Aveva
un'aria sdegnosa e un po' fredda perché Reynard non le piaceva e, qualche
volta, soffriva di dover nascondere la sua avversione. Ma per Reynard lei era
più bella e desiderabile che mai, ed egli provò l'impulso selvaggio di
afferrarla tra le braccia e portarla via di peso dalla taverna, sotto gli occhi
di Raoul Coupain e di suo padre.
«Portami
una brocca di La Frenaie», ordinò con voce aspra, che tradiva il risentimento
misto al desiderio.
Scuotendo
un po' il capo sdegnosa, e continuando a guardare Coupain, la ragazza obbedì.
Mise davanti a Reynard il vino forte e sanguigno senza dire una parola, e tornò
indietro a riprendere gli scherzi del commesso.
Reynard
cominciò a bere, ed il potente vino servì soltanto a dare fuoco all'astio e
alla passione che covava. Gli occhi gli si fecero velenosi e le labbra
increspate divennero maligne come quelle delle gronde che aveva scolpito sulla
cattedrale. Una rabbia funesta e selvaggia, come la collera tetra di un fauno
frustrato nei suoi desideri, bruciava dentro di lui; ma si sforzò di reprimerla
e rimase in silenzio, immobile, tranne che per il frequente riempire e svuotare
la coppa.
Anche
Raoul Coupain aveva consumato una generosa quantità di vino. Di conseguenza
presto si fece più audace nelle sue profferte amorose e tentò di baciare la
mano di Nicolette, che ora sedeva su una panca accanto a lui. La mano fu allegramente
sottratta e poi, dopo che la sua proprietaria ebbe dato a Raoul uno schiaffo
leggero e scherzoso, fu concessa a colui che la reclamava con modi che
colpirono Reynard come se fossero quelli di una sgualdrina.
Ringhiando
parole irate e sconnesse, in preda al folle impulso di scagliarsi sul fortunato
rivale ed ucciderlo con le sue mani nude, egli balzò in piedi e mosse verso
l'allegra coppia. Uno degli uomini che stavano nell'angolo lontano notò il suo
movimento ed avvertì Villom. Il taverniere si alzò, un po' barcollante per le
abbondanti bevute, e attraversò sospettoso la stanza, con gli occhi puntati su
Reynard e pronto ad intervenire in caso di violenza.
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Reynard
ebbe un attimo di indecisione poi continuò, reso quasi pazzo dall'odio
crescente che provava per tutti loro. Desiderava ardentemente uccidere Villom e
Coupain, desiderava uccidere gli odiosi individui che lo fissavano dall'angolo
opposto e poi, sopra i loro cadaveri strangolati, infuriare con baci ardenti e
veementi carezze sulle labbra ed il corpo riluttanti di Nicolette.
Vedendo
avvicinarsi l'intagliatore e conoscendone il temperamento malvagio e la fosca
gelosia, anche Coupain si alzò in piedi e di nascosto impugnò un piccolo
pugnale che portava sotto il mantello. Nel frattempo Jean Villom aveva
interposto tra i due rivali la sua massiccia corporatura. Egli desiderava
evitare la possibile rissa per il buon nome del locale.
«Torna
al tuo tavolo, intagliatore,» ruggì bellicoso, alla volta di Reynard.
Non
essendo armato, e vedendosi in minoranza, Reynard si fermò di nuovo, anche se
la rabbia ribolliva ancora in lui come il contenuto del calderone di un mago.
Con rossi lampi di fiamma omicida negli occhi stretti e cupi, fissò le tre
persone davanti a lui e vide, oltre di loro, con consapevolezza più istintiva
che reale, i vetri a listelli delle finestre della taverna, in cui la stanza si
rifletteva confusamente, con le sue candele ardenti, le sue stoviglie lucenti,
le teste di Coupain e Villom e della giovane Nicolette e, tra loro, la sua
stessa faccia tenebrosa.
Stranamente
e, sembrerebbe, senza alcuna relazione logica, si ricordò in quel momento della
nuvola scura ed ambigua che aveva visto sulla luna, e dell'insistente sensazione
di vaga persecuzione che aveva provato nel percorrere il vicolo.
Allora,
mentre ancora fissava indeciso il gruppo davanti a lui ed il suo vago riflesso nel vetro, si udì
uno strepitoso frastuono, e i
vetri della finestra con la loro scena dipinta andarono in frantumi
all'interno.
Prima
che i pezzi di vetro avessero raggiunto il pavimento della taverna, una forma
scura e mostruosa volò nella stanza, con un pesante sbattere di ali che fece
agitare la fiamma delle candele e danzare le ombre come un sabba di demoni
deformi.
La
cosa rimase sospesa per un attimo e, mentre Reynard e gli altri si voltavano
verso di lei, nella profonda oscurità sembrò torreggiare sulle loro teste più
in alto del soffitto stesso. Tutti videro lo splendore maligno dei suoi occhi,
simile a tizzoni del profondo Tartaro, e l'odioso contrarsi delle sue labbra,
che scoprì denti più aguzzi e più lunghi di quelli dei serpenti velenosi.
Dietro
di lei veniva adesso, attraverso la finestra rotta, un altro tenebroso mostro
volante, che sbatteva rumorosamente le ali nervate e appuntite. C'era qualcosa
di lascivo nel modo stesso in cui volava, come nel volo dell'altro si
esprimevano odio omicida e malvagità. La sua faccia da satiro si storceva
orribilmente in un immutabile ghigno e, mentre rimaneva sospeso accanto al
primo intruso, i suoi occhi concupiscenti non abbandonavano Nicolette.
Reynard,
come gli altri, era pietrificato da una costernazione e da un attonimento così
grandi, che quasi gli impedivano di provare terrore.
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Immobili,
senza riuscire ad emettere alcun suono, essi assistevano alla demoniaca
intrusione. Ma la costernazione di Reynard era mista ad un inesprimibile senso
di sorpresa e ad un tremendo riconoscimento. Solo la giovane, con un folle
grido di orrore, si girò e cominciò a correre attraverso la stanza.
Come
se quell'urlo fosse stato la provocazione necessaria, i due demoni si
avventarono sulle loro vittime. Uno, sfoderati gli artigli, con un colpo feroce
squarciò la gola di Jean Villom che cadde con un rantolo soffocato dal sangue e
poi, nello stesso modo, assalì Raoul Coupain. L'altro, nel frattempo, aveva
inseguito e sopraffatto la ragazza che fuggiva, e la teneva stretta nei suoi
bestiali avambracci, con le ali che la avvolgevano come un drappo infernale.
La
stanza si riempì di un turbine di lamenti, di un caos di grida selvagge e di
ombre che lottavano e si agitavano. Reynard udì il gutturale ringhio del mostro
omicida, mentre strappava con i denti il corpo di Coupain; e udì la lubrica
risata dell'incubo, sopra gli strepiti
isterici della ragazza terrorizzata. Poi un vortice d'aria spense le candele
che brillavano grottesche, e nell'oscurità Reynard ricevette un violento colpo,
come di un oggetto scagliato, forse di un'ala, ma pesante e duro come pietra.
Cadde e perse i sensi.
Annebbiato
e confuso, Reynard si sforzava di riprendere coscienza. Per un breve intervallo
non riuscì a ricordare dove si trovava, né cosa fosse accaduto. Quando aprì gli
occhi, si preoccupò per il doloroso pulsare delle sue tempie, per il ronzio di
voci agitate che lo circondava, per il risplendere di tante luci e l'affollarsi
di tanti volti ma, soprattutto, per la sensazione che fosse avvenuta una
catastrofe sconosciuta e terribile, un errore inimmaginabile. E questa
sensazione lo oppresse non appena si affacciò alla coscienza.
Lenta
e riluttante, gli tornò la memoria, e con essa la piena coscienza della
situazione e di ciò che lo circondava. Giaceva sul pavimento della taverna, ed
il sangue caldo e vischioso gli scorreva attraverso la faccia dalla ferita al
capo, che gli doleva.
La
lunga stanza era affollata di gente dei dintorni, entrata con torce, coltelli e
alabarde. Tutti guardavano i corpi di Villom e Coupain, che giacevano tra pozze
di sangue mischiate col vino e i pezzi delle suppellettili e del vasellame
fracassati.
Nicolette,
con il vestito verde a brandelli ed il corpo schiacciato dagli abbracci del
demonio, si lamentava flebilmente, mentre le donne le si affollavano intorno
con inutili strilli e domande che la poverina non riusciva ad udire, né
tantomeno a capire. I due amici di Villom, orribilmente straziati e mutilati,
giacevano morti sotto il tavolo rovesciato.
Stupefatto
dall'orrore, ed ancora stordito per il colpo che gli aveva fatto perdere i
sensi, Reynard si rimise in piedi barcollando, e si ritrovò circondato
immediatamente da voci e volti interrogativi.
Alcuni
erano un po' sospettosi, dal momento che nella taverna lui era il solo
sopravvissuto, ed aveva per di più una brutta fama.
18
Ma
le sue risposte alle domande presto li convinsero che il nuovo crimine era
interamente opera degli stessi demoni che infestavano Vyones da settimane in
modo così mostruoso.
Reynard,
comunque, non riuscì a dir loro tutto quello che aveva visto, né a confessare
le radici più lontane della sua paura e del suo sbalordimento. Il segreto di
ciò che sapeva era racchiuso nel ribollente abisso della sua anima torturata e
oppressa dal demonio.
In
qualche modo lasciò la locanda devastata, si fece largo attraverso la folla che
si assiepava ammutolita dall'orrore, e si ritrovò solo per le strade, nel cuore
della notte. Incurante del pericolo, e senza sapere dove andava, vagò per ore
ed ore attraverso Vyones e, mentre vagava, giunse dinanzi alla sua bottega.
Senza
nessuna possibile ragione, entrò, e ne uscì con un pesante martello che portò
con sé nelle sue successive peregrinazioni. Poi, guidato da un tormento terribile
ed inesplicabile, continuò finché l'alba non ebbe toccato con uno spettrale
luccichio le guglie e i tetti delle case.
Per
una spinta di cui non era del tutto consapevole, i suoi passi lo avevano
condotto alla piazza della Cattedrale. Ignorando il meravigliato sagrestano che
aveva appena aperto le porte, entrò e cercò una scalinata che saliva
serpeggiando fino alla torre su cui erano sistemate le sue gronde.
Nella
gelida e livida luce del mattino senza sole, uscì sul tetto e, sporgendosi
pericolosamente sull'orlo, esaminò le figure scolpite. Non si sorprese affatto:
ebbe solo la spaventosa conferma di un timore troppo orrendo perché potesse
esprimerlo, quando vide che i denti e gli artigli del maligno grifone dalla
testa felina erano macchiati di sangue raggrumato, e che brandelli di stoffa
verde pendevano dagli artigli del libidinoso satiro dalle ali di pipistrello.
Sembrò
a Reynard, nell'incerta luce cinerea, che un'aria di inesprimibile trionfo, di
intollerabile ironia, fosse stampata sulla faccia di quest'ultima creatura. La
fissò spaventato e affascinato, con disgusto e rabbia dolorosa e impotente, e
un pentimento più profondo di quello dei dannati sorse dentro di lui come
un'ondata soffocante.
Quasi
non si accorse di aver sollevato il martello di ferro e di aver colpito
selvaggiamente il profilo cornuto del satiro, finché non udì il cupo e rabbioso
fragore dell'impatto e si ritrovò a vacillare sull'orlo del tetto, cercando di
mantenere l'equilibrio.
Il
furioso colpo aveva semplicemente scheggiato i tratti della gronda, senza
cancellarne la maligna espressione di lussuria e di esultanza. Reynard alzò di
nuovo il pesante martello.
Il
colpo andò a vuoto. Perché, mentre colpiva, l'intagliatore si sentì sollevare e
trascinare all'indietro da qualcosa che affondava nella sua carne come
mille coltelli. Barcollò,
i piedi gli scivolarono, e finì
disteso sul bordo di granito, con la testa e le spalle penzolanti nel vuoto,
sopra la strada buia e deserta.
Quasi
svenuto e in preda alla nausea per il dolore, vide sopra di lui l'altra
gronda, con gli
artigli della zampa destra
saldamente conficcati nella
sua
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spalla.
Gli strapparono la pelle ancora più in profondità, con una terribile presa. Il
mostro incombeva su di lui come una bestia favolosa sulla sua preda e Reynard
si sentì scivolare vertiginosamente attraverso le grondaie della Cattedrale,
con la gronda che si girava e si contorceva, come per riassumere la sua posizione
normale sul vuoto. Il suo movimento lento e inesorabile sembrava far parte
della vertigine di Reynard. La stessa torre si inclinava e ruotava sotto di
lui, come in un incubo crudele.
Confusamente,
nello stordimento della paura e dell'agonia, Reynard vide l'impassibile faccia
da tigre curva su di lui, con gli orridi denti scoperti in un'eterna e
diabolica risata di odio. In qualche modo si era ritrovato in mano il martello.
Con l'istintivo impulso di difendersi, colpì la gronda, i cui tratti crudeli si
avvicinavano a lui come una distorta visione del delirio e della pazzia.
Anche
mentre colpiva, il vertiginoso movimento continuò, e Reynard sentì che gli
artigli lo trascinavano fuori, nel vuoto. Per via della sua posizione supina e
precaria, il colpo non raggiunse l'odiosa faccia e cadde con sordo fragore
sulla zampa, i cui artigli ricurvi erano conficcati nella sua palla come ganci
di macelleria. Il fragore terminò con uno schianto acuto e la gronda inclinata
sparì dalla sua vista, mentre lui cadeva.
Non
vide più nulla, tranne la massa scura della torre della Cattedrale, che
sembrava levarsi in volo, lontano da lui, e slanciarsi incredibilmente in alto,
nei cieli lividi e senza stelle in cui il sole tardivo non era ancora sorto.
Fu
l'Arcivescovo Ambrosius, che si recava alla prima Messa, a trovare il corpo
sfracellato di Reynard, che giaceva a faccia in giù nella piazza. Ambrosius si
fece il segno della croce, sussultando dall'orrore a quella vista. Poi, quando
vide la cosa che era ancora attaccata alla spalla di Reynard, ripeté il gesto
con più di una pia sollecitudine.
Si
curvò ad esaminarla. Con l'infallibile memoria di un vero amante dell'arte, la
riconobbe immediatamente. Poi, per lo stesso chiaro collegamento, vide che la
zampa di pietra, i cui artigli affondavano così profondamente nella
carne di Reynard, avevano subito un'alterazione molto strana. La zampa, da quel
che ricordava, avrebbe dovuto essere rilassata e leggermente ricurva; ma ora
era rigidamente allungata e spinta all'esterno, come se, zampa di una creatura
vivente, si fosse stesa per afferrare qualcosa, o avesse trascinato un pesante
fardello con i suoi artigli ferini.
FINE
(Trad.
Daniela Galdo)
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